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R.BRUNETTA (Editoriale su ‘Il Foglio’): “Un’agenda possibile per superare due tabù italiani: più produttività e più salari”

 

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La nuova legislatura europea si avvia in un momento critico per il Vecchio Continente, chiamato a gestire le rivoluzioni digitali e ambientali. Rivoluzioni destinate a cambiare il lavoro e la vita di quattrocento milioni di persone, il quadro di incertezza geo-politica ai suoi confini e la dimensione demografica, che, ai ritmi attuali, toglierà dal mercato cinque milioni di italiani in età occupabile nei prossimi quindici anni. Senza considerare, inoltre, la stanchezza che sta accompagnando il processo di globalizzazione, le cui giunture – vale a dire le catene internazionali del valore – sono sottoposte ad uno stress senza precedenti. Processi di questa portata, se non adeguatamente gestiti a livello politico, rischiano di produrre profonde conseguenze sugli assetti generali dei diversi sistemi economici. Incidendo direttamente sull’organizzazione e sulla tenuta del modello sociale, si potrebbero determinare alterazioni profonde nello stesso tessuto democratico: sia perché quel modello non è più in grado di produrre adeguata ricchezza, sia perché lo stesso modello, pur producendo ricchezza, non è capace di redistribuirla in maniera socialmente accettabile. C’è poi l’incognita delle nuove tecnologie. A partire dall’IA (Intelligenza Artificiale) destinata a alterare profondamente il vecchio orizzonte economico e sociale. Per far fronte a queste sfide, è evidente la necessità di una governance adeguata dei processi decisionali, che evidentemente non possono più essere gestite solo a livello nazionale, ma che richiedono una dimensione anche europea. Dimensione che, peraltro, è anche imposta dal calendario delle nuove scadenze fiscali, così come modificato dalla recente revisione del quadro fiscale comunitario e del Patto di Crescita e Stabilità. Elementi, questi ultimi, che hanno ulteriormente complicato il contesto, di per sé già complesso. L’apparente semplificazione delle procedure, che le caratterizza, non deve confondere. È vero che alcuni vincoli sono stati ridotti, ma le vecchie prescrizioni del Patto erano talmente estreme da risultare inapplicabili. Come nel caso della cosiddetta “regola del debito”: la prescrizione della riduzione pari ad un ventesimo l’anno per la quota in eccesso rispetto al 60 per cento del rapporto debito/PIL. Un taglio talmente drastico, da risultare impossibile. Questi eccessi sono stati corretti, ma le modifiche introdotte, rispetto alla proposta originaria della Commissione europea, non sembrano aver risolto il problema in termini definitivi. Valgano per tutte le considerazioni recenti del Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta: “Qualunque riforma che intervenga solo sulle politiche nazionali rischia di fare apparire le regole europee sbilanciate verso il rigore e poco attente alle esigenze dello sviluppo”. Quando è proprio quest’ultima la frontiera irrinunciabile. Sebbene molto dipenderà da come le nuove regole saranno applicate, ferme restando le loro eventuali modifiche nel mutato contesto politico all’indomani delle elezioni, non è tanto la prospettiva di breve periodo a preoccupare. Le deroghe, già previste in tema di salvaguardia, a causa del maggior peso della spesa per interessi, possono offrire, per il prossimo triennio, una possibile via di fuga a moltissimi Paesi, compresa l’Italia. I nodi, invece, verranno al pettine subito dopo. Quando le regole diverranno più stringenti e, al tempo stesso, sarà terminato l’apporto positivo del PNRR sul fronte più caldo degli investimenti. Ne consegue che questo periodo di relativa tregua dovrà essere utilizzato al meglio per impostare le politiche future. La riflessione non può che partire dall’analisi dello stato di fatto. Da un lato le preoccupazioni per il pregresso, segnato dalla persistenza degli squilibri di finanza pubblica – deficit e debito – triste eredità del passato. Dall’altro i parametri più recenti, che vedono l’Italia primeggiare nel contesto europeo, nel confronto soprattutto con Francia e Germania, potendo vantare una resilienza che è stata in grado di giustificare, seppure in parte, i successi del momento. “Il nostro paese – ha ricordato Fabio Panetta, nelle sue ultime Considerazioni finali” – è oggi creditore netto nei confronti del resto del mondo per 155 miliardi di euro, il 7,4 per cento del PIL; dieci anni fa la nostra posizione estera netta era debitoria per il 23 per cento del PIL e costituiva un elemento di vulnerabilità”. In questo limitato lasso di tempo, quindi, l’Italia ha creato ricchezza aggiuntiva per un valore pari a più di un terzo del suo prodotto lordo. Ha pagato tutti i debiti contratti verso l’estero ed oggi, in valore assoluto, è il terzo creditore, nei confronti del resto del mondo, dopo la Germania e l’Olanda. Successi di questa portata non si ottengono per caso. Sono il prodotto di un’azione collettiva in cui le varie parti che compongono la comunità nazionale hanno saputo operare in sinergia tra loro. 

Si è trattato di quell’orchestra, di cui ha parlato Riccardo Muti durante lo spettacolo all’arena di Verona, in cui ciascun musicista segue il proprio spartito, ma poi il risultato finale è la grande melodia. Ebbene, se questo è vero, bisogna tuttavia riconoscere che non tutti gli sforzi compiuti sono stati poi ricompensati nella stessa misura. I mali antichi del nostro paese sono noti da tempo. Rispetto alla Francia e alla Germania i salari dei lavoratori dipendenti in Italia sono oggi inferiori di un quarto. In termini pro capite il reddito reale disponibile delle famiglie è fermo al 2000, quando altrove gli incrementi sono stati consistenti. Colpa della bassa produttività, si dice. Ma la diagnosi è parziale. Se fosse così, l’Italia sarebbe ancora un paese debitore nei confronti del resto del mondo. La verità, quindi, è più complessa. Sono i dati di Eurostat a fornire la chiave per la corretta impostazione del problema. In Italia il costo del lavoro per unità prodotta, negli ultimi anni, è sì cresciuto (perché sono saliti in parte i salari nominali), ma molto meno che in Francia, Germania e Spagna. E lo stesso si è verificato nei confronti della media dell’Eurozona. Dov’è la differenza? Nel fatto che la produttività non è aumentata come negli altri paesi concorrenti, e dunque il sistema produttivo ha dovuto cercare competitività comprimendo il costo del lavoro. Ed ecco, allora, spiegato l’apparente mistero: le esportazioni che crescono più delle importazioni, i salari che ristagnano, la redistribuzione del reddito che subisce un’ulteriore torsione a vantaggio esclusivo di alcune categorie e settori sociali. Una situazione che può continuare? Ne dubito. Se i dati forniti da Fabio Panetta indicano la regressione europea nei grandi equilibri mondiali, la situazione italiana nel contesto europeo è ancora peggiore. “Negli ultimi due decenni il peso dell’Unione europea sul PIL globale – aveva evidenziato – è sceso dal 26 al 18 per cento, mentre quello degli Stati Uniti è rimasto pressoché invariato, al 26, e quello della Cina è quadruplicato, al 17”. Ebbene la perdita di peso dell’Italia nel contesto europeo – dal 2,9 all’1,8 per cento – è stata di gran lunga (oltre il 60 per cento) maggiore.

Sono dati che indicano l’urgenza del fare. Tornare a crescere diventa, pertanto, l’imperativo categorico. Ma crescere significa almeno due cose: aumentare la produttività del lavoro, e, al tempo stesso, garantire che quei guadagni di produttività siano equamente redistribuiti tra tutti coloro che hanno contribuito a questo grande sforzo nazionale. Che i due elementi siano inscindibili non è solo una questione etica. Comunque, importante. E anche una questione di natura macroeconomica. La stessa Commissione europea ha dovuto constatare con amarezza quanto risparmio europeo, ogni anno, prenda la via dell’estero, non trovando all’interno adeguate occasioni d’investimento. Osservazioni riprese nel rapporto di Enrico Letta sulla situazione del mercato interno europeo. L’Italia, come indicato in precedenza, non è da meno, sebbene i suoi numeri non siano quelli della Germania o dell’Olanda. Impegnarsi per una crescita che sia, al tempo stesso, soddisfacente e solidale non sarà facile. Finora i dati sull’occupazione, che è la prima forma di riscatto non solo economico ma sociale, sono stati più che positivi: 84 mila occupati in più in aprile 2024 rispetto al mese precedente; 516 mila nell’ultimo anno. Tuttavia, il tasso di attività resta ancora di 8 punti inferiore alle medie europee. Con una forte penalizzazione per i giovani e le donne. L’aumento della produttività pub, pertanto, contribuire a ridurre quelle distanze e, al tempo stesso, fornire le risorse necessarie per un contestuale aumento dei livelli salariali. I due problemi sono strettamente intrecciati, come insegna la storia del capitalismo. La scelta di Henry Ford di aumentare la paga oraria dei suoi operai fu anche dettata dalla necessità di creare un mercato in grado di assorbire la maggior produzione di automobili, ottenuta con l’introduzione della catena di montaggio. Regola che non è cambiata, nonostante le grandi metamorfosi subite dal sistema economico contemporaneo. Allora si tratto della lungimiranza di un grande capitano d’industria, oggi della necessità di una scelta collettiva, destinata a convergere verso un obiettivo condiviso. In definitiva un vero e proprio “patto sociale”, come del resto suggerito dalla stessa Banca d’Italia, in una relazione di qualche anno fa, il 2019. Del resto, sul piano tecnico, sappiamo che non basta aumentare la “produttività aziendale” se ad essa non si accompagna una serie di altri ingredienti: a partire da quella che gli economisti chiamano la “produttività totale dei fattori”. Un insieme di atteggiamenti destinati a trasformarsi in una vera e propria filiera, che orienta e supporta le scelte sia dei soggetti privati sia delle grandi istituzioni chiamate a gestire la politica economica e finanziaria. Il problema è come monitorare tutto ciò. In questo ci aiutano le recenti decisioni europee rivolte a promuovere l’istituzione di organismi indipendenti, i “National Productivity Board” (NPB), comitati nazionali per il monitoraggio della produttività. Tra il 2016 e il 2021, sono 18 gli Stati membri dell’UE che hanno istituito un NPB, in linea con le raccomandazioni del Consiglio Europeo. Ad oggi, in effetti, tutti i membri dell’Eurozona sono dotati di un NPB, con le due grandi eccezioni di Spagna ed Italia, e quella dell’Estonia. Ritardo da colmare. L’obiettivo di questi NPB è “analizzare gli sviluppi e le politiche pubbliche in ambito produttività e competitività, contribuendo all’elaborazione e all’implementazione delle riforme necessarie a sostenere la crescita economica a livello nazionale”. I principali punti di forza di un NPB – sia sulla base delle intenzioni iniziali sia dell’esperienza accumulata dal 2016 – sono l’indipendenza dal governo in carica, richiesta chiave delle Istituzioni comunitarie, e dal ciclo politico in generale, oltre che la disponibilità di un pool di funzionari dedicati con competenze avanzate per l’elaborazione di evidence based policies con orizzonte di medio lungo termine. Inoltre, l’indipendenza e la qualità dei profili che appartengono al NPB contribuiscono alla credibilità del suo operato, anche presso l’opinione pubblica. I governi possono servirsi ulteriormente di queste competenze e dell’operato del NPB più in generale per dare un contributo alle politiche pubbliche anche in situazioni più “emergenziali”, come ad esempio è accaduto in alcuni paesi in risposta alla crisi energetica. I paesi che si sono dotati di un NPB hanno optato per una varietà di strutture organizzative. Senza avere, per altro, compiti tali da alimentare il sospetto di un nuovo dirigismo. Si tratta, invece, di una continua azione di comunicazione per richiamare tutti al rispetto di regole poste nell’interesse collettivo. Il che implica una serie di conseguenze, a partire dall’autorevolezza che deve accompagnare il relativo messaggio. L’Italia non si è ancora dotata di tale organismo, ma i tempi sembrano maturi per un monitoraggio sistematico di cosa la stagione di riforme stia portando in termini di guadagni di produttività, e soprattutto di cosa manchi, in termini legislativi o di imperfetta implementazione delle riforme. 

Specie se si considerano i legami profondi, già intessuti con il Pnrr, che dovranno essere ulteriormente sviluppati in vista delle nuove Regole del Patto di stabilità e crescita, in cui, appunto, il legame tra le eventuali facilitazioni concesse-il piano dei sette anni per ricondurre il rapporto debita pil in un sentiero sostenibile – e le riforme annunciate tende a divenire più stretto e vincolante. E che il tema sia sempre meno eludibile è dimostrato dall’ultimo rapporto del FMI – “Article IV staff report” -appena presentato alle autorità italiane dagli esperti, al termine della loro missione annuale di monitoraggio della situazione economica italiana. Rilanciare la produttività, gestendo la transizione digitale ed ecologica in atto, richiede quindi una serie articolata di interventi di sistema che non possono tradursi in un solo provvedimento. A tale riguardo, l’attenzione dovrebbe essere focalizzata sulle infrastrutture pubbliche critiche, sulla riforma dell’istruzione e sull’investimento in capitale umano al fine di creare l’insieme di abilità e competenze in grado di gestire la transizione ecologica, sulla diffusione delle tecnologie digitali nelle aziende e nelle pubbliche amministrazioni, proseguendo, al contempo, con le semplificazioni amministrative e l’efficientamento del sistema giuridico: elementi già ricompresi nel PNRR. Ugualmente, soprattutto in chiave europea, sarà importante proseguire con l’integrazione dei mercati dei capitali, diversificando le fonti di finanziamento oltre i tradizionali prestiti bancari, e sostenendo la continuità e la modernizzazione del settore societario. Attenzione particolare, infine, si dovrà prestare all’articolazione dei rapporti di lavoro, sia per gestire l’inverno demografico che caratterizzerà il nostro Paese nei prossimi anni, sia per garantire una efficiente allocazione del lavoro attraverso i diversi strati della società e le diverse capacità individuali, con un corretto incrocio tra le competenze del lavoratore e i requisiti del posto di lavoro. Questo implica una corretta programmazione dei flussi migratori regolari, con un mix di competenze da ricercare in finzione dei gap di professionalità che si generano nel Paese in funzione degli investimenti nelle transizioni digitali e ambientali. Ma anche interventi in termini di formazione nel sistema scolastico, per incoraggiare la partecipazione femminile al mercato del lavoro, in particolare nei settori STEM, ancora molto al di sotto della media europea. Così come gli interventi per ridurre il numero di giovani NEEI’ (Not in Education, Employment or Training), nei quali spesso si annidano situazioni patologiche del mercato del lavoro. Per essere ancora più concreti, per la seconda parte della legislatura, occorrerà prevedere un’agenda sociale in cui gli interventi legati alla produttività siano intimamente coordinati con quelli relativi al funzionamento del mercato del lavoro. Infatti, è solo recuperando efficienza e produttività e rendendo al contempo efficiente il funzionamento del mercato del lavoro, che possiamo recuperare quel gap sui salari reali denunciato dal governatore Panetta, e che alimenta nel nostro paese il disagio sociale. 

Ma per farlo è evidente che occorre una mediazione trasversale tra tutte le parti sociali, ossia proprio ciò che l’art. 99 della nostra Carta costituzionale ha previsto per il CNEL. Elemento di novità rispetto a tante esperienze straniere. 

In questo “luogo”, infatti, è possibile unire alla necessaria competenza tecnica, che può derivare da strutture specializzate nella ricerca economica e finanziaria, la possibilità di un confronto continuo con le rappresentanze sociali di coloro che sono chiamati, in prima persona, a realizzare questo sforzo corale. Vale a dire quei corpi intermedi che fanno della società italiana un unicum nel panorama europeo. Una ricchezza da valorizzare. Foriera di quegli ingredienti capaci di trasformare il semplice dato statistico, relativo agli andamenti della produttività, in quel “patto sociale” al cui sviluppo legare le sorti dell’intero paese.