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Gli effetti distorsivi del combinato disposto “Riforma del Senato/Italicum”: le ragioni dei costituzionalisti

 

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i seguito riportiamo alcuni stralci degli interventi di autorevoli costituzionalisti intervenuti in audizione presso la Commissione Affari costituzionali del Senato, nell’ambito dell’indagine conoscitiva per l’istruttoria legislativa dei disegni di legge costituzionale di revisione del Titolo I e del Titolo V della Parte II della Costituzione.

In particolare i costituzionalisti hanno rilevato una profonda contraddizione nell’impianto della riforma complessiva alla luce del combinato disposto con una legge elettorale, come quella già approvata dalla Camera dei deputati, che prevede l’assegnazione di un premio di maggioranza.

L’azione congiunta delle due riforme moltiplicherebbe quindi gli effetti distorsivi sia della rappresentanza politica che delle funzioni di garanzia e di controllo assegnate al Parlamento.

 

GIUSEPPE DE VERGOTTINI

Professore ordinario di diritto pubblico comparato, docente di diritto costituzionale presso l’Università di Bologna

La proposta riguardante il modo di selezionare il futuro Senato dovrebbe tenere conto di quanto sta avvenendo in merito al progetto di riforma delle legge elettorale già approvato alla Camera il 12 marzo 2014. A questo proposito è agevole notare che la disciplina delle clausole di sbarramento, del premio di maggioranza e delle liste bloccate rischia di far si che la restante Camera dei deputati elettiva su base popolare rimarrebbe condizionata dalle scelte dei partiti più forti come seguito elettorale. A questa Camera si contrapporrebbe un senato non più elettivo. In pratica si rischierebbe di consentire il controllo del governo a un partito che ottenesse con un quarto dei suffragi popolari quella maggioranza assoluta che ai sensi del nuovo articolo 70 consentirebbe sempre al governo nella Camera dei deputati di superare eventuali dissensi del Senato.

 

Il disegno governativo desta perplessità sotto diversi profili: la diversa durata dei mandati dei consiglieri di provenienza regionale, la sfasatura macroscopica rispetto alla durata dei senatori di nomina presidenziale. La composizione del Senato sarebbe caratterizzata da uno schema schizofrenico. I rappresentanti delle autonomie permarrebbero in carica seguendo la durata del mandato locale che quindi potrebbe risolversi in periodi diversificati di durata di quello senatoriale.

I componenti presidenziali addirittura avrebbero durata sorpassante quello della durata della generalità dei componenti di provenienza regionale e locale.

L’organo non sarebbe più stabile nella sua composizione. Interrogativi si sono affacciati quanto alla ricaduta di tale anomalia sulla durata delle funzioni del Presidente e dell’Ufficio di Presidenza del nuovo Senato.

 

 

ALESSANDRO PACE

Professore emerito di diritto costituzionale presso l’Università La Sapienza di Roma

I problemi della composizione e delle funzioni del Senato sono strettamente intrecciati. E’ infatti indubbio che se venissero approvati sia il modello prefigurato dal d.d.l. cost. n. 1429 AS, sia il d.d.l. elettorale denominato “Italicum”, avremmo come risultato – in conseguenza sia della diversa composizione delle due Camere, sia dalla notevole diversità di attribuzioni, sia infine dalla diversa fonte di legittimazione – un “monocameralismo” dominato da una coalizione di partiti non legittimata dalla maggioranza degli elettori, per giunta privo di contro-poteri.

Il che è impensabile in una democrazia fondata sulla sovranità popolare.

Qui, a ben vedere, sta, in via di principio, l’ostacolo alla modifica della forma di governo nel nostro ordinamento costituzionale, ostacolo che è rappresentato dall’eventuale inesistenza di effettivi contro-poteri. Ed è appunto l’assenza di contro-poteri l’aspetto più critico del d.d.l. in questione.

 

Infatti se la Camera elegge – con i suoi 630 deputati, praticamente da sola, in un Parlamento in seduta comune composto da 778 membri (630 più 148)6 – sia il Presidente della Repubblica (per la cui elezione sono, tutt’al più, necessari i due terzi), sia un terzo dei componenti del CSM; elegge tre dei cinque giudici costituzionali; è titolare esclusivo della funzione legislativa e del rapporto di fiducia col Governo, per contro il Senato delle Autonomie partecipa bensì all’approvazione delle leggi costituzionali ed elegge due dei tre giudici costituzionali, ma le sue attribuzioni, per quanto riguarda la funzione legislativa, sono puramente consultive e facilmente superabili dal contrario voto, ancorché a maggioranza assoluta, della Camera dei deputati. Con il che si riprodurrebbe in Italia, in forma aggravata, la situazione spagnola di sudditanza del Senato (ancorché partecipi alla funzione legislativa) rispetto al Congresso dei deputati: sudditanza unanimamente criticata non solo da parte della dottrina, ma dallo stesso Consiglio di Stato nel parere del 16 febbraio 2006 sulle modifiche da apportare alla Costituzione spagnola.

 

Va poi aggiunto che la dequalificazione del Senato consegue anche dal fatto che, secondo il d.d.l. cost. n. 1429, la c.d. Camera alta non verrebbe più eletta direttamente dai cittadini. Il che consegue al noto rilievo dell’attuale Presidente del Consiglio, rimasto tutt’altro che isolato, secondo il quale il Senato non dovrebbe più essere elettivo ma composto di rappresentanti esercenti funzioni elettive in enti territoriali, e ciò per consentire al bilancio dello Stato un risparmio di un miliardo di euro (equivalente alle indennità spettanti ai 350 senatori).

A parte tutte le critiche finora mosse, ciò che mi sembra indiscutibile è che la trasformazione del Senato da elettivo a non elettivo non costituirebbe affatto un risparmio ma si risolverebbe anzi in uno spreco di risorse finanziarie. Far svolgere le funzioni di senatore a chi contemporaneamente ricopra la carica di Presidente della Giunta regionale, di Presidente della Provincia di Trento o di Bolzano, di sindaco dei Comuni capoluogo di Regione e di Provincia autonoma, di consigliere regionale e di sindaco implica, del tutto ovviamente, che il loro impegno sarebbe necessariamente parziale.

 

Ben più razionale è quindi la proposta di contenere i costi riducendo il numero sia dei deputati che dei senatori, ma mantenendo anche per questi ultimi l’elettività. In tal senso, da taluni è stata avanzata la proposta, accettabilissima, di eleggere 200 senatori e 400 deputati, pervenendo così alla stessa riduzione numerica prospettata dal Presidente del Consiglio.

 

Infatti perché il Senato possa essere qualificato come contro-potere, oltre a dovergli riconoscere ulteriori e più importanti funzioni, gli si dovrà anche riconoscere la necessaria forza politica, conseguente ad un’apposita elezione, in sede regionale, preferibilmente in coincidenza con le elezioni regionali. E cioè o sulla base di un listino oppure in via autonoma.

GUSTAVO ZAGREBELSKY

Presidente emerito della Corte costituzionale

Il quadro è composto, sì, dalla marginalizzazione della seconda Camera, ma anche dalle prospettive in cui si annuncia la riforma della legge elettorale, in vista di soluzioni fortemente maggioritarie e debolmente rappresentative, tali da configurare una “democrazia d’investitura” dell’uomo solo al comando, tanto più in quanto i partiti, da associazioni di partecipazione politica, secondo l’art. 49 della Costituzione, si sono trasformati, o si stanno trasformando in appendici di vertici personalistici e in quanto i parlamentari, dal canto loro, hanno scarse possibilità d’autonomia, di fronte alla minaccia di scioglimento anticipato e al rischio di non trovare più posto, o posto adeguato, in quelle liste bloccate che la riforma elettorale non sembra orientata a superare. La denuncia dunque veniva, e ancora viene, da quello che i giuristi chiamano un “combinato disposto”. La visione d’insieme è quella d’un sistema politico che vuole chiudersi difensivamente su se stesso, contro la concezione pluralistica e partecipativa della democrazia, che è la concezione costituzionale. La posta in gioco è alta. Per questo è giusto lanciare l’allarme.

 

Il difetto maggiore dell’attuale progetto governativo di riforma del Senato consiste, a mio parere, nella sua associazione alla legge elettorale, quale risulta anch’essa dal progetto governativo.

Questa riforma del Senato consiste infatti, sostanzialmente, nella sua abolizione: sono infatti assai poche e scarsamente rilevanti le competenze che gli vengono attribuite. Essa consiste, in breve, nella trasformazione dall’attuale bicameralismo perfetto in un sostanziale monocameralismo.

 

Ora, il monocameralismo non equivale affatto a una riduzione della centralità del Parlamento. Al contrario, soprattutto se accompagnato da una riduzione del numero dei parlamentari, esso produrrebbe una maggiore efficienza decisionale e perciò un rafforzamento del potere del Parlamento.

 

C’è tuttavia una condizione perché il monocameralismo sia un fattore di rafforzamento anziché di emarginazione del ruolo del Parlamento: che l’unica Camera – la Camera dei deputati – sia eletta con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire perfettamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di assicurare la presenza e il ruolo di controllo delle forze di opposizione e di minoranza. Solo in questo modo, grazie alla massima rappresentatività dell’unica Camera, alla sua composizione pluralista e alla forza delle minoranze e delle opposizioni, il Parlamento può esercitare il ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività del governo che si convengono a una democrazia parlamentare quale è la nostra.

 

Se invece viene adottato un sistema elettorale fortemente maggioritario, il Parlamento monocamerale si riduce a un organo di mera ratifica delle decisioni governative e risulta alterato l’intero equilibrio dei poteri e la natura stessa del rapporto tra governo e parlamento. E’ quanto avverrebbe con il sistema iper-maggioritario disegnato dal progetto governativo di legge elettorale cosiddetto Italicum, che è sostanzialmente una riedizione del vecchio porcellum con i suoi medesimi vizi, severamente censurati dalla sentenza della Corte costituzionale, e con i medesimi effetti distorsivi della rappresentanza.

 

E’ insomma l’azione congiunta delle due riforme – con la drastica riduzione del pluralismo nell’unica Camera e la lesione dell’uguaglianza nel voto (il voto alla lista maggiore varrebbe esattamente il doppio di quello dato alle altre liste, mentre non varrebbe nulla il voto dato alle liste escluse dal Parlamento) – che moltiplica i loro effetti distorsivi sia della rappresentanza politica che delle funzioni di garanzia e di controllo assegnate al Parlamento.

 

In queste condizioni mi sembra altamente probabile un futuro intervento censorio della Corte costituzionale su entrambe le due riforme in questione, o anche una bocciatura delle due riforme ad opera del referendum confermativo della riforma costituzionale del Senato e di un possibile referendum abrogativo sulla legge elettorale. La Corte costituzionale è stata estremamente esplicita su questo punto, con riferimento allo stesso potere di revisione costituzionale di questo Parlamento.

Ha infatti affermato che l’“illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare” che contrassegna questo Parlamento, eletto con la legge dichiarata incostituzionale, lo rende “incompatibile con i principi costituzionali” e inidoneo non solo alle funzioni “di indirizzo e controllo del governo”, ma ancor più alle “delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art.138): ciò che peraltro distingue il Parlamento da altre assemblee rappresentative di enti territoriali” (p.10). In altre parole, questo Parlamento, eletto con una legge incostituzionale caratterizzata dall’ “illimitata compressione della rappresentatività” e dalle lesione dell’uguaglianza nel voto, non è abilitato, dice la Corte, a una revisione costituzionale di questa portata, soprattutto se associata a una cosiddetta riforma elettorale che di fatto riproduce quella dichiarata incostituzionale.

MARIO DOGLIANI

Professore di Diritto Costituzionale, Università di Torino

La pacifica ammissione e il generale accordo sul fatto che l’attuale legislatura debba avere l’intera durata quinquennale costituzionalmente prevista, comporta uno sfregio dei cd. effetti retroattivi della sentenza della Corte costituzionale, e cioè del significato obiettivo della sentenza. Significato obiettivo che consiste in una sorta di (per quanto ragionevolmente elastica) funzionalizzazione della legislatura al fine della approvazione di una legge elettorale conforme alla lettura della costituzione che dalla sentenza stessa viene affermata. Sfregio che consiste nel far leva sullo spropositato premio di maggioranza – dichiarato incostituzionale – proprio per autoassegnarsi quella durata al fine di approvare gli strumenti – elettorali e costituzionali – volti a sopraffare le attuali minoranze interne e le opposizioni esterne, in nome di “paletti irremovibili” che trovano solo in quella abnorme maggioranza (e nelle ragioni più profonde delle sue alleanze) il loro fondamento politico. Mi rendo conto che la eliminazione della prospettiva di elezioni anticipate è allettante per i parlamentari in carica, ma non è costituzionalmente corretta.

 

Questa pretesa governativa al suicidio dell’attuale Senato è una pretesa difficilmente spiegabile, e dunque molto inquietante (come non può non esserlo, sempre, il far forza su elementi populistici). Blindature, asfaltature, carri armati, gufi, palude, “comitato dei bischeri” … sono termini che presuppongono una legittimazione originaria extra-parlamentare. E infatti si è sentito parlare di una legittimazione del Governo che discenderebbe dalle “primarie” e dalla successiva approvazione del programma da parte della Direzione del PD. Questo sarebbe il nuovo processo materialmente costituente. Questi sarebbero i “fatti”, o i miti, originariamente costituenti. Ma non si rendono conto i “giovani” del governo delle straordinarie assonanze tra questo linguaggio e quello che fece deragliare il sistema parlamentare statutario?

 

Se la Camera dei deputati, per come verrà composta e per i poteri che ad essa verranno attribuiti, realizzerà un drastico ridimensionamento del principio rappresentativo e un altrettanto drastico rafforzamento dei poteri della coalizione “minoritaria” di Governo, e del Governo stesso, come si fa a dire che il compito essenziale, vitale, primario da affidare alla seconda camera è quello di realizzare un “raccordo” (parola quanto mai ambigua e misteriosa) tra Stato, Regioni e Comuni, e non invece quello di realizzare adeguati contrappesi (cioè contro-poteri) “dentro” la forma di governo, secondo quanto il costituzionalismo insegna da secoli?

 

In questa situazione di incertezza e di non conoscenza della situazione futura del Parlamento nel suo complesso, l’unica posizione razionale è quella di assumere l’ipotesi (diciamo così) più drastica: che venga approvata la legge elettorale che è stata presentata.

Non è lecito mettere tra parentesi il problema, come se la riforma elettorale fosse una variabile indipendente. Ed è inutile baloccarsi sulla riforma del Senato facendo conto su eventuali, futuri, emendamenti o rivolgimenti della legge elettorale.

 

 

FRANCESCO CERRONE

Professore ordinario di diritto costituzionale presso l’Università degli studi di Perugia

Vorrei notare che la decisione politica, [convalidata dall’Ufficio di Presidenza del Senato], di scorporare il tema del bicameralismo, del titolo V della costituzione e del potere governativo di incidenza sui lavori parlamentari dal contesto complessivo delle riforme in discussione da tempo fra le forze politiche – riforme che toccano anche, come è noto, oltre che la forma di governo, la legge elettorale ed il complesso delle garanzie costituzionali e degli istituti di partecipazione popolare – questa decisione politica, che nel mio discorso ho considerato e continuerò a considerare come un dato di fatto, incide però probabilmente in modo significativo sulla coerenza ed ispirazione razionale delle proposte ora in discussione così da rendere problematico un loro innesto nell’ordinamento costituzionale vigente.

 

Si pensi per esempio da un lato allo straordinario incremento di potere a favore del Governo e dall’altro alla sua perdurante legittimazione democratica solo indiretta, dipendente dalla sola fiducia parlamentare; si pensi ancora alla preoccupante insufficienza di strumenti ed istituti di garanzia, capaci di bilanciare l’aumento dei poteri governativi e della maggioranza politica di cui sono espressione.

 

Direi che affiora così un’incomprimibile esigenza sistematica di apprezzamento delle proposte di revisione costituzionale, esigenza che impone di valutarne la portata anche alla luce di ciò che, per ora, non è in discussione, per verificare se quelle proposte, isolate da un contesto più complessivo, siano tuttavia in grado di corrispondere ai ricordati criteri di coerenza e razionalità.

 

Il soddisfacimento di tale esigenza consentirebbe di evitare che l’attuale assetto costituzionale sia stravolto da innesti che ne oscurino il netto profilo di principio: vorrei richiamare l’attenzione di questa Commissione sulla necessità, così a me pare, di tener conto di questa esigenza sistematica.

VINCENZO LIPPOLIS

Professore ordinario di diritto costituzionale italiano e comparato presso L’Università degli studi internazionali di Roma.

Sottraendo al Senato la fiducia e con una funzione legislativa a prevalenza Camera occorre infine tener presente il collegamento con il sistema elettorale di questa assemblea. Una legge di forte stampo maggioritario provocherebbe la conseguenza di una concentrazione di poter nella maggioranza della Camera. Sarebbe quindi il caso di pensare già in questa sede a qualche rafforzamento dei diritti delle opposizioni. Penso in particolare al ricorso diretto alla Corte, istituto che è già sperimentato in altri sistemi democratici europei.

 

La previsione per talune categorie di leggi che la Camera possa non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato solo pronunciandosi a maggioranza assoluta nella votazione finale suscita degli interrogativi. Il funzionamento concreto di tale clausola dipende dalla legge elettorale, se cioè essa assicuri una maggioranza e con quale margine, e , sul piano politico, dalla tenuta della maggioranza stessa.

 

Se la maggioranza è ampia e stabile, la clausola può risultare ininfluente; in caso contrario, può provocare un blocco senza esito perché nulla dice il ddl sulle conseguenze del mancato raggiungimento del quorum e, in particolare, non prevede eventuali procedure di conciliazione. Ci si dovrebbe chiedere se non sarebbe più utile prevedere che quelle leggi, o parte di esse, siano bicamerali per usufruire della flessibilità di un secondo passaggio nelle due assemblee.