Il 24 marzo del 2000, i Capi di Stato e di Governo della UE, riuniti nella capitale portoghese, lanciarono la “Strategia di Lisbona”. “L’Unione – come si legge in quel lungo comunicato finale – si è prefissata un nuovo obiettivo strategico per il nuovo decennio: diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”. Un sogno, purtroppo naufragato solo cinque anni dopo nel suo “sostanziale fallimento”, come si può leggere mestamente sul sito del MEF. Oggi la UE non può permettersi di ripetere un simile errore. Troppo diverse, rispetto ad allora, le condizioni internazionali e le sfide che l’attendono. Basti pensare ai venti di guerra che, a est e a sud, soffiano sulle sue frontiere.
Nell’immediato la risposta europea non si è fatta attendere. La riconferma tempestiva di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea garantisce una linea di continuità con il passato. Resistere alle pressioni di chi, in nome della pace, suggeriva una posizione di appeasement non era né facile né scontato. E, invece, la larga maggioranza continuista, che ha segnato la sua elezione, dimostra si la saldezza dei principi sui quali ancora si fonda lo spirito europeo, ma anche la paura del nuovo. Qualcosa è stato ceduto sul piano programmatico, ma sono i compromessi necessari dell’agire politico. Vorrà dire che, alla fine, sarà la dura realtà della sostenibilità economica e sociale, ancora una volta, a imporsi sulle enunciazioni.
Per quanto ci riguarda, più di qualsiasi altra cosa siamo preoccupati di come l’Europa affronterà il tema dell’IA (Intelligenza Artificiale). Non perché ne temiamo gli effetti. Sarebbe un neoluddismo al quadrato, considerati i risultati positivi che è destinata a produrre. I rischi che sono sottesi all’uso maldestro di qualsiasi tecnica produttiva – si pensi solo all’energia nucleare – non possono far dimenticare gli enormi benefici che il suo sviluppo può garantire. Visto ch’essa prefigura, come dicono gli storici, un vero e proprio “salto di paradigma”. Vale a dire l’inizio di un nuovo ciclo destinato a durare nel tempo e a diffondersi progressivamente in tutto il pianeta.
Purtroppo, l’Europa finora è partita con il piede sbagliato. Sebbene la Commissione europea avesse, da tempo, teorizzato che l’IA fosse destinata ad avere un impatto paragonabile a quello che fu l’invenzione del “motore a vapore” o il diffondersi dell’”energia elettrica” – eventi che cambiarono il mondo – gli investimenti realizzati, in questo campo, sono più che modesti. Nel 2023 solo quattro Paesi (Germania, Francia, Spagna e Svezia) compaiono nelle statistiche internazionali. Il loro volume complessivo è stato pari a meno di 4 miliardi di dollari. Inferiore a quello della sola Gran Bretagna. Poco meno di un ventesimo degli investimenti americani, che hanno investito, secondo la Stanford University, ben 70 miliardi di dollari.
La speranza è che, nella legislatura appena iniziata, qualcosa possa cambiare e che all’IA si possa dedicare l’attenzione che merita, cogliendo tutta la complessità del fenomeno. Non basterà infatti un approccio economicista. Mentre sul fronte tecnologico avanza la modernità, su quello sociale si assiste a fenomeni preoccupanti, segnati dalla crisi della partecipazione con conseguente perdita del senso di comunità a tutti i livelli. Il che rischia di determinare, se questa seconda deriva non sarà fermata, un cortocircuito dalle conseguenze imprevedibili. Tali da ritardare, se non bloccare, al tempo stesso l’avanzamento tecnologico e accentuare una frammentazione che rischia di degenerare verso forme di atomizzazione nelle relazioni sociali.
L’impatto che avrà l’IA sarà tale da far impallidire i traguardi del passato. La produzione di “macchine intelligenti”, in grado di svolgere i propri compiti in modo autonomo, basandosi su un proprio database di vaste proporzioni, grazie alle capacità di calcolo offerte dai nuovi super computer quantistici, garantirà al mondo grandi opportunità. Più che una semplice rivoluzione tecnico scientifica sarà un passaggio destinato, come nel “fordismo”, a cambiare radicalmente il mondo in cui viviamo. E delineare una società completamente diversa da quella precedente, non solo nei suoi aspetti materiali. Si pensi solo ad Antonio Gramsci in “Americanismo e fordismo”.
Un nuovo ciclo, quindi. Mentre quello che è ancora di fronte a noi sta finendo. Solo così si spiega la fatica del vivere moderno. La perdita di vecchi valori che non riescono più, nella loro effettività, a sostenere il peso della democrazia. La distanza crescente tra un’élite al comando e l’insieme dei governati. Di coloro che si identificano sempre meno con le scelte compiute nel loro nome, ma non condivise. È la crisi profonda dei “corpi intermedi” di quei relais che in passato avevano garantito il continuo ricambio organico tra base e vertice, dando solidità a prospettive all’intero sistema.
All’origine di questa crisi, indubbiamente, un problema di risorse. Con le attese che crescono ad una velocità maggiore rispetto a quanto è possibile produrre con le tecniche attuali. Ma non solo. Anche un problema di cattiva redistribuzione del reddito ottenuto, che alimenta fenomeni di rivincita e rancore sul piano politico e sociale. A tutto ciò l’IA può, almeno in parte, rispondere, aumentando l’output della produzione. Negli Stati Uniti le ultime previsioni per il 2025 indicano in un punto percentuale di PIL il contributo derivante dalla maggiore diffusione dell’IA. Ma questo non risolve il problema più generale. La necessità di una riorganizzazione sociale capace, al tempo stesso, di dischiudere le vie di un nuovo modo di produrre e di una ben diversa partecipazione democratica, in grado di contemperare gli interessi e gli egoismi corporativi, con le strategie e gli obiettivi di medio e lungo periodo.
La prima condizione, affinché tutto possa svilupparsi nei tempi necessari, è che la distribuzione dei “guadagni di produttività”, che ne deriverà, sia efficiente, equa, inclusiva e sostenibile. Le fragilità che connotano la società contemporanea sono tali da escludere nuovi possibili traumi. La crisi del processo di globalizzazione, con i suoi squilibri, sta ad indicare quanto possa essere nefasto un processo che non risponda a quelle caratteristiche. Anche in questo caso i “guadagni di produttività” sono stati rilevanti, ma la loro gestione ha alimentato, specie nei Paesi occidentali, nuove fratture. Incrementando enormemente le distanze tra il vertice della piramide e quella base di ceto medio, che aveva rappresentato, negli anni passati, il sale dello sviluppo democratico.
L’equità, vale a dire la difesa dei più fragili, dovrà essere uno dei requisiti essenziali. C’è un welfare da riformare, colmando i ritardi nell’opera di relativa manutenzione. Occorrerà, quindi, individuare nuove priorità, specie a favore di chi sarà costretto a subire gli effetti più diretti di una tecnologia che cambia il modo di produrre, di elaborare, di intervenire in tutti i rami del sapere e dell’esercizio delle professioni. Si dovranno prevedere nuovi interventi a favore dei soccombenti. Non solo le necessarie indennità, ma una riqualificazione professionale, meglio se centrata sul campo della scienza, della tecnologia, dell’ingegneria e della matematica (STEM). Formazione necessaria per trasferire i lavoratori in precedenza occupati nei settori più obsoleti, in un ramo più alto dell’organizzazione sociale. Sarà un modo intelligente per garantire una ripartizione più equa dei vantaggi derivanti dalla maggior spinta del progresso tecnologico. E, al tempo stesso, una risposta necessaria, al fine di evitare reazioni incontrollabili.
La crescente sostituzione delle “macchine intelligenti” alle vecchie strutture di produzione determinerà – è innegabile – una riduzione delle vecchie “alienazioni” che furono il retaggio del ‘900. I lavori più ripetitivi, quelli più faticosi saranno sostituiti dal ronzio delle macchine che non avranno più bisogno di quel controllo ossessivo della fabbrica moderna. Sarà un vantaggio per tutti: soprattutto per coloro che ne erano asserviti. Ma il passaggio non sarà meccanico. Occorrerà un intenso lavoro pedagogico per far conoscere le caratteristiche del nuovo mondo quando alla fine la transizione, non solo tecnologica, sarà compiuta. Solo così la distribuzione dei “guadagni di produttività” risulterà, al tempo stesso, sostenibile e inclusiva: termini che si integrano e si qualificano reciprocamente.
Non si dimentichino le basi di partenza. L’Italia, seconda potenza manifatturiera del Continente, ha un retroterra importante. Nel campo della robotica si colloca ai primi posti delle classifiche internazionali. Al secondo posto in Europa, dopo la Germania ed al sesto nel mondo, per numero di robot inseriti nel circuito produttivo. Estremamente vasto il loro campo di applicazione: dall’automotive alla metallurgia, dall’alimentare alla plastica. Uno sviluppo che, in qualche modo, ha già anticipato il mondo dell’IA, e che, grazie all’IA, potrà godere di un ulteriore crescita. Sempre che i problemi già sorti – carenza di mano d’opera qualificata, formazione professionale insufficiente e così via – non si trasformino in ostacoli insormontabili.
È l’ulteriore dimostrazione che affidarsi al solo mercato non basta. Anche se esso rimarrà condizione necessaria. La contrattazione aziendale continuerà ad essere determinante. Gli aspetti normativi della contrattualistica dovranno, ovviamente, adeguarsi al nuovo ambiente. Accentuare i raccordi sistemici con i vari livelli settoriali, nazionali e di prossimità. A livello internazionale, invece, soprattutto europeo, sarà opportuno prestare una maggiore attenzione ai profili economico-finanziari dell’intero problema, piuttosto che alla semplice regolazione. Da questo punto di vista la proposta di Ursula von der Leyen di costituire un “Fondo europeo per la competitività” che favorisca la localizzazione delle tecnologie strategiche, nell’ambito della twin transition – latransizione verde e digitale – , non può che essere accolta con favore.
Ma tutto questo forse non basterà. Ci sarà pure una ragione se la stessa Presidente della Commissione europea si sia sentita in dovere di proporre uno “Scudo europeo per la democrazia”. All’origine di questa proposta vi sono problemi di natura contingente, legati al cambiamento del clima internazionale, ma al fondo di tutto è qualcosa di più magmatico. Che, almeno per quanto ci riguarda, identifichiamo con la crisi dei “corpi intermedi” che, storicamente, ne hanno rappresentato la più forte impalcatura. E che oggi vanno rimotivati, per spingerli ad operare nell’interesse di un bene superiore: la coesione sociale, valoriale, comunitaria, a tutti i livelli.
È necessario fronteggiare la rapidità del progresso tecnologico, ma anche di una più ampia partecipazione per evitare che le distanze tra le élite e popolo, siano destinate ad aumentare. In definitiva di un grande “Patto sociale” in cui si possa ricomporre quel quadro che tenda a superare una disarticolazione sociale, come l’attuale, che se non contenuta non avrà solo conseguenze negative sul piano politico – culturale, ma ritarderà i processi di modernizzazione tecnologica del Paese, lo porrà in balìa di una concorrenza internazionale, alla quale sarà sempre più difficile resistere. Senza considerare il ruolo che saranno in grado di svolgere i nuovi attori dell’economia digitale: le piattaforme informatiche, i social network e i sistemi algoritmici eterodiretti ed etero governati in grado di riempire il “vuoto” determinato dalla desertificazione dei corpi intermedi classici. Assisteremmo, così, alla consacrazione di una élite in assenza di una vera rappresentanza della “società civile” con la conseguente perdita dei valori collettivi e del senso di comunità delle democrazie moderne e liberali. Mostri destinati a popolare il deserto della società moderna che ha perso la propria “densità”, come direbbe Oliver Eaton Williamson, economista premio Nobel.